Da: David Quammen, Spillover, Adelphi, p. 353
«La chiave di tutto è l'interconnessione» mi disse Epstein [Jon, ecologo dei patogeni animali] nel corso di una amabile chiacchierata il giorno dopo. «Si tratta di capire in che modo uomini e animali sono interconnessi». ... Non possiamo, continuò Epstein, indagare un nuovo patogeno o un ospite serbatoio come cose a sé stanti, isolati dal contesto. Il problema riguarda il contatto con gli esseri umani, le interazioni, le occasioni. «E lì che si nasconde il rischio di uno spillover [= il momento in cui un agente patogeno passa da una specie ad un'altra]».
La parola «occasioni» sarebbe risuonata più volte nella mezz'ora successiva. «Molti di questi virus, di questi patogeni che saltano dagli animali selvatici a quelli domestici o all'uomo, esistono in natura da tanto tempo». Non necessariamente causano malattie, e la loro evoluzione è avvenuta in parallelo a quella dei loro ospiti naturali nel corso di milioni di anni. Hanno raggiunto una sorta di compromesso, si replicano lentamente ma continuamente, si diffondono nella popolazione ospite senza dare segni della loro presenza: in altre parole godono di una certa prosperità a luiìgo termine rinunciando al successo immediato, cioè alla massima replicazione all'interno del singolo individuo.
È una strategia che funziona. Ma quando noi turbiamo questo equilibrio agendo sulla specie ospite, che magari cacciamo o scacciamo dall'ecosistema, che viene compromesso o distrutto, ecco che le nostre azioni fanno aumentare il livello di rischio.
Più occasioni per il salto fra ospiti
«Ci sono più occasioni per il patogeno di fare il salto dall'ospite naturale a uno nuovo» mi disse Epstein. Il nuovo ospite può essere un animale qualunque (dai cavalli australiani agli zibetti cinesi), ma più spesso è l'uomo, perché siamo dappertutto e ci facciamo notare. Offriamo un mare di nuove possibilità.
«A volte non succede nulla» continuò Epstein. Il salto avviene ma il microbo è innocuo per il nuovo ospite come per il vecchio (questo è forse il caso del virus schiumoso delle scimmie). Altre volte si sviluppa una malattia molto grave che colpisce un numero limitato di individui prima che il patogeno si trovi in un vicolo cieco e l'epidemia cessi (Hendra ed Ebola). In altri casi ancora, il patogeno ottiene un grande e duraturo successo all'interno del nuovo ospite, in cui si trova tanto bene da rimanere stabilmente, migliorando col tempo l'adattamento. Si evolve, prospera, persiste.
La storia dell'HIV illustra proprio il caso di un virus che avrebbe potuto finire in un vicolo cieco ma che ha saputo trovare vie d'uscita. ...
Ciò che determina il successo di un patogeno
«Ciò che determina il successo di un patogeno nel nuovo ospite è in gran parte il caso, a mio parere. Sì, il caso è di gran lunga il fattore più importante». Con i loro alti tassi di mutazione e replicazione, i virus a RNA sono molto adattabili, e ogni spillover rappresenta una nuova opportunità di cambiare e stabilirsi in permanenza nella nuova casa.
È probabile che non sapremo mai quanto spesso il fenomeno accada, cioè quanti spillover si verifichino senza lasciare tracce. Molti di questi virus non hanno conseguenze sulla nostra salute o magari provocano una malattia che, soprattutto in certi luoghi dove la medicina è un optional, viene scambiata per qualche altra affezione già nota. «Il punto è che più occasioni ha il virus di saltare in un nuovo ospite, più occasioni ha anche di venire trasformato quando si imbatte in un nuovo sistema immunitario». Le mutazioni, casuali mafrequenti, ricombinano i nucleotidi in tantissimi modi nuovi, «e prima o poi uno di questi virus trova la combinazione giusta per adattarsi al nuovo ospite.
Una questione ecologica e una questione evolutiva
L'argomento del numero di occasioni è cruciale, più profondo di quanto potrebbe sembrare a prima vista. L'ho sentito evocare anche da altri ricercatori che si occupano della malattia. È cruciale perché rispecchia il carattere casuale dell'intero processo.
Non dobbiamo infatti cedere alla tentazione di idealizzare il fenomeno delle malattie emergenti, illudendoci che i patogeni attacchino gli esseri umani per una qualche finalità (c'è chi ha parlato ad esempio di «rivincita delle foreste pluviali » è una bella metafora, certo, ma non va presa troppo sul serio).
Epstein, senza particolare enfasi sul lato drammatico della cosa, mi parlò delle due dimensioni distinte ma conciate dello spillover: quella ecologica e quella evolutiva.
Gli interventi sull'habitat, la caccia a scopo alimentare, il contatto tra esseri umani e virus a noi ignoti che si nascondono nelle bestie: questo è l'aspetto ecologico, è ciò che avviene tra gli uomini e gli altri organismi, attimo per attimo. I tassi di replicazione e mutazione di un virus a RNA, la diversa efficienza dei vari ceppi virali, l'adattamento ai nuovo ospite: questo è l'aspetto evolutivo, che riguarda i fatti interni alla popolazione di qualche organismo e come la popolazione stessa reagisce al suo ambiente.
Tra le caratteristiche fondamentali dell'evoluzione (e del suo meccanismo principe, la selezione naturale, descritto da Darwin e successori) c'è l'assenza di uno scopo. Pensare che tutto si muova con un fine significa cedere a una fallacia pseudoreligiosa, che può avere appeal dal punto di vista emotivo («la rivincita della foresta»), ma è del tutto errata. Ecco il punto d'arrivo del discorso di Epstein: non pensiamo mai nemmeno per un momento che questi virus abbiamo una volontà e una strategia, o che ce l'abbiano per qualche motivo con noi. « Tutto si riduce alle chance di successo». Non sono loro a cercarci; semmai siamo noi a cercare loro.