Un paradosso, fra i tanti, contraddistingue la condizione umana: è il doversi far raccontare dagli altri della propria nascita, e delle proprie esequie dopo la morte. Infatti il nostro corpo cammina su un filo sospeso fra due estremi di indisponibilità cognitiva della propria presenza nel mondo, i cui capi di principio e di fine lo sono invece a disposizione degli altri.
Il nostro mondo è la totalità dei fatti e degli stati di cose che ci accadono durante questo camminare sul filo e che impariamo a raccontare a noi stessi e agli altri.
Ma era mondo anche la totalità dei fatti e degli stati di cose che accaddero al nostro corpo al momento in cui, nascendo, si è incamminato inconsapevole su quel filo, e che impariamo a raccontare a noi stessi e agli altri al pari di come ci è stato raccontato; e sarà pure mondo la totalità dei fatti e degli stati di cose che accadranno al nostro corpo con la morte, al capo terminale del filo, e che ogni tanto si affaccia alla nostra mente per raccontarsi da solo pur non avendone noi alcuna disponibilità.
La nostra, infatti, è una mente incarnata, e come tale evolutasi attraverso il concepire pensieri concreti, enunciare proposizioni formate e condivisibili con altri, decidere volizioni traducibili in azioni, per provvedere a bisogni presenti e futuri, utili a procedere nel cammino su quel filo che è la vita, in ciò condividendo lo stesso scopo di tutti gli altri viventi, pur con le dovute distinzioni di coscienza.